Nelle sue scelte estetiche Gaetano Randazzo non ha mai amato banalità o soluzioni prevedibili. Anche di fronte a pagine “intoccabili” come i tre Concerti Sacri di Duke Ellington, da lui riassunti nel “Sacred Concert” diretto mercoledì sera al Teatro di Verdura per il conservatorio Bellini, l’idea che ha sorretto la bacchetta siciliana nella riscrittura dei brani e nel taglio esecutivo richiesto all’organico ha seguito percorsi poco battuti, a volte anche rischiosi e, com’è nel suo stile, più attenti all’essenza che non alle forme.
In queste pagine, infatti, il senso religioso di Ellington è pervaso da una spiritualità certo intensa ma anche fortemente ancorata a dimensione terrena e a fisicità: e sono proprio questi i riferimenti privilegiati da Randazzo il quale, inoltre, dei Concerti Sacri ha preferito evidenziarne la spettacolarità vocale e strumentale (con ardite escursioni dinamiche tra pianissimo e fortissimo), la bellezza melodica e, soprattutto, il respiro più sensuale, côtè che emerge spesso nei suoi progetti. Imponente la formazione, oltre cento elementi tra orchestra sinfonica e orchestra jazz del conservatorio Bellini, gruppo vocale SeiOttavi, coro di voci bianche e coro Arcobaleno del Teatro Massimo (Salvatore Punturo maestro dei cori), oltre solisti di rango come la cantante Daniela Spalletta (stella della serata), il performer di tip tap Marco Rea, l’armonicista Giuseppe Milici, i trombettisti Vito Giordano e Giacomo Tantillo, il pianista Riccardo Randisi, il trombonista Calogero Ottaviano ed altri ancora. I quattordici temi tratti dai tre Concerti Sacri hanno esaltato la capacità di Randazzo di creare agili incastri sonori tra voci, fiati, archi e ritmi mentre la loro successione non ha mai accusato cali di tensione anche nei momenti in cui i confronti con versioni di riferimento potevano essere molto pesanti. Ad esempio in “Come Sunday”, tratta dalla suite “Black Brown and Beige” e nella versione originale affidata alla interpretazione inarrivabile di Mahalia Jackson: impegnati come solisti nel difficile tema, i SeiOttavi hanno dissipato ogni timore inventandosi tutt’altra strada interpretativa. Oppure in “David danced before the Lord”, dal primoConcerto Sacro: nello storico evento del 1965, nella cattedrale di San Francisco, il performer di tip tap era il grande ballerino nero Bunny Briggs. Sul palco del Verdura il ruolo è stato sostenuto da Marco Rea il quale, tra omaggio e sottile autoironia, prima della performance si è tinto in pubblico il viso di nero e poi ha strappato applausi per l’efficacia ritmica e coreografica dei suoi interventi. Oppure ancora in “TGTT” (Too good to title) affidato all’armonica di Giuseppe Milici il quale ne ha evidenziato con gusto e sobrietà la stupenda linea melodica (lo stesso Ellington considerava il tema “troppo bello per dargli un titolo”) trasformandolo in una “canzone perfetta” che solo il miglior Burt Bacharach avrebbe potuto immaginare. In conclusione, un Sacred Concert che abbatte steccati stilistici, utilizza con sapienza modi e materiali sonori differenti (sinfonismo, improvvisazione jazz, vocalità tese ora alla lirica ora allo spiritual ora ai guizzi dello scat, senso del blues, coscienza del pop, enfasi e delicatezza) e oscilla tra sguardo alla tradizione e voglia di attualizzazione. Forse è proprio nel suo continuo tradire e restar fedele ad Ellington che Randazzo ha saputo restituire una rilettura di queste pagine così ricca di sorprese, gusto e genialità. E che emozione, alla fine, veder sfilare sul palco accanto agli adulti così tanti piccoli meravigliosi artisti d’ogni etnia.
Un autentico show che meriterebbe di essere portato in giro ancora a lungo.